Troppo di tutto!

X QUELLI DI FRETTA: la nostra capacità di focalizzarci quando usiamo la rete è messa a repentaglio dalla vastità degli stimoli che ne riceviamo. Come evitare questo effetto collaterale indesiderato? Oppure questa abbondanza è una fonte straordinaria di opportunità? Come possiamo organizzare il nostro pensiero in maniera razionale al riguardo?

Abbiamo la sensazione di essere esposti a più stimoli di quelli che riusciamo ad elaborare. Dappertutto spuntano idee, resoconti, ricerche, blogs, links, articoli, libri, discussioni, convegni e raramente possiamo dire che siano del tutto distanti dalle cose su cui siamo già focalizzati o intendiamo farlo per lo sviluppo della nostra impresa. Soprattutto se noi e la nostra impresa siamo coinvolti in un processo di innovazione. Il pensiero strategico si sviluppa ormai su più dimensioni: geograficamente non c’è area del mondo che non possa suggerirci opportunità; e guardare gli altri settori, un tempo distanti gli anni-luce e nettamente separati dal nostro, rappresenta spessissimo una fonte di ispirazione non solo pertinente ma anche decisiva.

Dall’altra parte il buon senso ci dice che non possiamo e non riusciamo ad occuparci di tutto e anche la letteratura scientifica, di management e tecnologica brulica di ‘caveat‘ sui pericoli del pensiero dispersivo. Largamente ispirata all’idea del cervello come di una macchina sequenziale Charlie_Chaplin_3a stati finiti, questa letteratura adesso ci mette in guardia dall’assenza di focus come una cosa pericolosissima. Eppure per anni sono state magnificate le virtù inenarrabili della Rete e della conoscenza digitale come forma di conoscenza ampia, profonda, diffusa, disponibile, moderna; come fosse il ‘nuovo motore’ della innovazione e della competizione. Il day-by-day – poi – fa il resto presentandoci giornalmente il conto del tempo ‘perso’ dietro a piccole o grandi cose, spesso incompiute. E così il nostro tempo lavorativo (e la sua percezione) si dilata sino a divorare tutto ciò che possediamo e proiettando su tutto la sensazione di una biblica inadeguatezza: “per quanto abbia fatto mi sarò forse perso qualcosa di decisivo fra le pieghe delle mail, nei blog che non riesco a seguire, sui social? ma dovrò pur anche lavorare!”

Proviamo a sviluppare un pensiero autonomo al riguardo? Riflettiamo con calma sulla fonte delle nostre ultime 3-5 iniziative fondamentali, che hanno cambiato la vita della nostra azienda (o anche quella personale): si tratti di un prodotto, di una alleanza, di una modalità distributiva, di una modalità di comunicare, di una collaborazione, etc. Da dove ci è venuta l’ispirazione, da dove i contributi per svilupparla? dove abbiamo tratto il know-how per metterla in pratica e come l’abbiamo comunicata? come abbiamo potuto condividerla e diffonderla? Come abbiamo appreso se aveva successo e come l’abbiamo corretta in corso d’opera? Ci accorgeremo che il processo che ci ha portato dal pensiero all’azione non è così polarizzato e pre-organiozzato e che esso risponde in parte ad una esigenza più o meno definita ed in parte ad una inclinazione naturale della nostra cultura e di quella dell’organizzazione in cui viviamo.

Allora l’efficienza, la simmetria e la sequenzialità non sono le caratteristiche fondamentali del nostro processo cognitivo né di quello che ci porta ad agire ed a decidere. Esse sono – semmai – elementi del nostro processo produttivo, che viene dopo l’ideazione. Questa fase ideativa è di necessità dispersiva, lunga e tortuosa perché tende ad abbracciare tutto l’universo che ci circonda ed a trarne spunti e indicazioni, a costituire un punto di osservazione e di influenza, un nucleo forte fra mille altre forze ed influenze.

In effetti tutte le grandi civiltà che hanno segnato la storia si sono servite di esploratori che vagavano anche per anni prima di trovare una nuova terra promettente per i loro committenti. Questo vale anche per le scoperte scientifiche il cui sfruttamento su larga scala è preceduto da anni di tentativi spesso apparentemente campati in aria: si pensi alla macchina di Turing rispetto ai moderni calcolatori. E in arte, si pensi alla ‘lunga gestazione’ del cubismo in pittura o della musica atonale.

Ma cosa c’entra l’impresa in tutto questo? Se oggi il valore concreto di un’impresa risiede in maniera decisiva nella sua capacità ideativa, nella abilità di modellare uno stile di vita o una modalità di consumo o fruizione o nello stabilire relazioni ed alleanze decisive che abbiano un senso in prospettiva e se questo ormai riguarda sia il prodotto in sé che la sua comunicazione e distribuzione, allora le imprese sono in pieno coinvolte in questo processo apparentemente dispersivo: scomporre e ricomporre il mondo che le circonda per poterne far parte utilmente. Questa dispersione non è imputabile agli strumenti digitali; anzi, forse in questo processo così importante la rete e le tecnologie digitali sono fondamentali proprio perché ci aiutano ad allargare concretamente e a dismisura la nostra visuale ed a farlo in maniera sistematica e comunicativa. Per il resto abbiamo bisogno di tutto il tempo che ci vuole, non un minuto di meno.

Immagine: Charlot sorride dentro la macchina che lo sta per stritolare. Così è sempre stato il nostro rapporto con la tecnica: serviti o asserviti? Liberati dalla fatica e altrimenti schiavizzati? E così anche con la più intangibile delle tecniche, quella digitale. La differenza sta nella postura e nella qualità eccentrica di quel sorriso che guarda oltre, che sa e vuole altre cose.

Per conoscere il tuo pensiero al riguardo rispondi ai due sondaggi qui sotto (i cui risultati condivideremo) e commenta il post: il tuo pensiero è molto prezioso per noi e per gli altri lettori. Grazie!

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Conversazione con Egeria di Nallo sul marketing in una società complessa

Questo post ospita una conversazione con Egeria Di Nallo sull’evoluzione del Marketing in una società complessa. Egeria vive a Bologna, professore ordinario di sociologia dal 1980, titolare della cattedra di sociologia e di sociologia dei consumi nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna, Direttore del Dipartimento di Sociologia della stessa Università ha esteso la sua attività ben oltre i confini nazionali (fra l’altro è stata anche antropologa nella selva Amazzonica). Si occupa di sociologia e marketing da molti anni con uno staff di collaboratori e un approccio essenzialmente scientifico con cui collabora come consulente di importanti aziende di vari settori dall’ industriale al finanziario. Oggi con lei parliamo dell’ Osservatorio Meeting Point da lei fondato e nel quale applica una tecnica di ricerca, elaborata insieme ai suoi collaboratori, che permette di prevedere le aspettative del mercato secondo scansioni temporali che coprono l’arco di tempo di 5 anni. Credo sia un approccio che può rivoluzionare completamente la ricerca che accompagna le attività di produzione e commercializzazione  sfatando il mito della centralità del consumatore abbattendo la tradizionale – e ormai traballante – barriera fra metodi di previsione quantitativa e qualitativa.

I libri di Egeria sono tradotti anche in inglese, brasiliano, giapponese.

Nota: qui di seguito viene proposto un quick-poll che ci può essere molto utile per capire i vostri orientamenti sull’argomento. Grazie

 

 

ab

AB: Egeria, il punto di partenza di tutto è il libro ‘Marketing per una società complessa’ che scrivesti qualche anno fa. Qual’è il contesto che ti ha ispirato? Quale lo scopo di quelle riflessioni?

EDN:Mi ha ispirato la semplice osservazione sull’inefficacia dei metodi correnti di analisi egeria di nallo mercato fra l’altro condivisa da studiosi di marketing come Gerken che in quegli anni pubblicava un libro con un titolo molto significativo : “addio al marketing”. Degli studi di marketing si dice che sono buoni finchè funzionano; in altre parole si usa la logica dello stregone: “Funziona quindi è buono, non mi sto a chiedere perché è andato bene e soprattutto – quando poi va male – perché è andato male”. Si tende a considerare il mercato come una realtà a sé stante, con una sua logica, un suo ‘sentire’ fortemente indipendente dal resto della società. Dunque, quando mi sono resa conto che le ricerche di mercato tradizionali funzionavano prevalentemente per chi le svolgeva mentre ben poco per chi le commissionava, anziché cercare qualche abbellimento o qualche parolone per abbagliare i clienti ho tentato di capire perché una volta funzionavano ma in quel momento non funzionavano più. La risposta l’ho trovata collegando il mercato al resto della società. Semplicemente, la struttura delle differenze che caratterizza una società influisce anche sui modi di vita, e dunque il consumo cioè in altre parole il mercato. Per esempio: il mercato di una società in cui le differenze sociali sono ingabbiate in compartimenti stagni (status) è evidentemente diverso dal mercato di una società in cui le differenze sociali si articolano su piani fra di loro collegati secondo il principio della mobilità sociale (stratus). La domanda da porsi diventa allora : “com’è cambiata la struttura delle differenze nella società al punto che le vecchie analisi di mercato non vanno più bene?”.

 La risposta l’ha data il sociologo Niklas Luhman che nella “Teoria dei sistemi sociali” spiega come siamo passati da una società stratificata ad una a differenziazione funzionale: in parole povere nel passato gli individui trascorrevano la vita secondo le logiche dello strato sociale a cui appartenevano con lo sguardo rivolto agli strati superiori da cui attraverso precise dinamiche discendevano i modelli di consumo. Praticamente lo stratus di appartenenza forniva modelli di comportamento più o meno per tutte le espressioni vita. Dunque dal punto di vista delle analisi di mercato bastava individuare le regole di quello strato ed occhieggiare ai modelli della classe superiore e il gioco era fatto. La conseguenza è che dagli anni settanta la differenziazione per stili di vita orientò il marketing alle ben note cluster analysis.

Già negli anni novanta quel tipo di analisi di mercato mostrava decisamente la corda perché la differenziazione funzionale che tratteggiava la vita sociale faceva sì che gli individui non avessero un modello unitario di comportamento come quello rappresentato dalla classe di appartenenza o dallo stile di vita. In più stava cambiando il sistema della personalità che nel passato tendeva alla coerenza e alla stabilità e che ora tende alla mutevolezza e alla flessibilità.

AB: Come hai pensato che un approccio essenzialmente teorico, nato in un contesto di riflessione e ricerca universitaria potesse diventare un metodo pratico che si può applicare alle imprese? Nella sua origine il metodo tradisce una forte attenzione all’evoluzione sociale in termini sociologici: come si sposa questo con la premura tutta oeconomica delle aziende?

 EDN: Una buona pratica ha sempre una buona teoria alle spalle. Si pensi ad esempio in medicina alla teoria degli equilibri di Ippocrate, alla biologia della psiche di Hamer (per quanto ancora se ne discuta), alla ormai scontata teoria dei germi di Pasteur, alla teoria cromosomica. Una pratica che si basa su una teoria è molto meglio della pratica nuda e cruda, spesso improvvisata, immaginifica e raffazzonata. Agli uomini d’impresa vorrei ricordare che il concetto di homo oeconomicus è stato largamente superato proprio dagli economisti più avvertiti. Tanto per citarne alcuni, il Nobel Amartya Sen e l’italiano Stefano Zamagni. Spero davvero che le aziende stiano acquisendo la consapevolezza che i numeri da soli non solo non bastano, ma sono una font di inganno! Immateriale e materiale si intrecciano sempre più strettamente e questo è il futuro.

AB: Puoi descrivere in cosa consiste Meeting Points? E quali sono i suoi campi di applicazione?

 EDN: Quanto al Meeting Point: si tratta di una teoria (espressa nel libro che citavi all’inizio), ma anche di un metodo e persino (naturalmente) di una piattaforma applicativa (un software, insomma). Non chiede nulla al consumatore (non si fanno interviste, focus o quant’ altro) semplicemente perché il consumatore non sa oggi cosa vorrà domani. Il MP prevede gli orientamenti del mercato fino a 5 anni suddivisi in quattro scansioni temporali (da 0-6 mesi ; 6 mesi- 1 anno; 1 anno –2 anni ; 2 anni -5 anni).

Nella nostra teoria il mercato è un sistema sociale che si può leggere come un insieme di sistemi culturali che si chiamano Meeting Point perché sono un punto di incontro: il consumatore entra ed esce dai meeting point , a seconda delle funzioni che in quel momento vuole o deve soddisfare. I MP costituiscono un filtro fra gli altri sistemi sociali e il mercato e attraverso di loro le comunicazioni dei vari sistemi sociali diventano economicamente rilevanti e apprezzabili assumendo la forma concreta di prodotti, comunicazioni e servizi. Conoscere le comunicazioni che i sistemi sociali inviano al mercato attraverso i codici e i filtri dei vari meeting point permette di conoscere in anticipo quelle che saranno le future esigenze del mercato.

AB: forse la cosa più sopreè la precisione cui cui arrivano le previsioni sia da un punto di vista quantitativo che di orizzonte temporale. La traduzione di previsioni qualitative in quantitative è sempre stato un po’ il sogno di tutti; tanto e vero che se un’azienda si rivolge ancora adesso ad un istituto di ricerca gli vien spiegato che esiste una alternativa fra la profondità priva di riscontri numerici di una ricerca qualitativa e la superficialità analitica confortata da numeri di una qualitativa? Quali sono i principi di funzionamento di questo modello di transizione?

EDN: Se questa è la teoria del MP espressa in pillole, in effetti il metodo – costruito in più di dieci anni di studio e di pratica – permette di organizzare in termini intellegibili e quantificabili il flusso comunicativo proveniente dai vari sistemi sociali e di prevederne la caduta sui vari MP secondo le 4 scansioni temporali di cui ho fatto cenno. E’ un po’ difficile accettare la demistificazione della centralità del consumatore cosciente ma è innegabile che questi, sottoposto a stimoli complessi e spesso inaspettati, ha di fatto mutato anche la sua personalità privilegiando la mutevolezza e la flessibilità. Il metodo non permette infatti di prevedere che cosa farà il signor Rossi (nessuno riesce più a farlo), ma quanti e quali prodotti, servizi, comunicazioni etc. verranno richiesti e non importa se si tratterà di richieste coerenti reiterate dallo stesso consumatore o effettuate da consumatori spesso in contraddizione con altri comportamenti di consumo.

 Quanto al passaggio dal qualitativo al quantitativo, il presupposto è puramente scientifico e consiste nella formulazione di coefficienti di correlazione costruiti con l’ausilio dell’osservazione empirica del comportamento delle varie comunicazioni in serie storiche di qualche decennio, dall’uso accorto di   formulazioni econometriche e dal ricorso a software applicativi sempre più performanti.

AB: So che il metodo è stato applicato sia nel contesto di aziende di produzione, che nel mondo della distribuzione organizzata che addirittura nel settore della finanza. Senza svelare segreti, potresti raccontare qualche esempio significativo di prodotti di successo che sono nati con l’aiuto di MT?

 EDN: Si, abbiamo lavorato in molti settori dall’abbigliamento, agli scooter, banche, assicurazioni, domotica, frigoriferi ma anche alimentazione e turismo. Abbiamo fatto ricerche anche per Ministeri e Regioni. A volte è accaduto che sulla base delle nostre ricerche dessimo suggerimenti di comunicazione, prodotto o componenti di prodotto magari i apprezzate ma non messe in pratica, per i motivi più svariati. Sinceramente ricordo con rammarico il caso Mandarina Duck, che purtroppo ripensò ai nostri suggerimenti cinque sei anni dopo quando ormai era troppo tardi (ndr: l’azienda ha conosciuto un disastroso declino).

Al contrario la Piaggio, che fu il nostro primo cliente costruì l’X9 (un modello di scooter che ebbe molto successo) su nostre indicazioni non solo relativamente al concept di prodotto, ma anche alle componenti di prodotto (ruota artigliata, occhi (fari) da mostro, sella morbida, etc.). Banca San Paolo accolse i nostri suggerimenti e aprì agli immigrati con sportelli e prodotti dedicati; trasformatasi in Intesa San Paolo recepì le nostre indicazioni a vari livelli: dal tema della nuda proprietà, all’attenzione alle varie confessioni religiose, alle coppie di fatto. Attualmente stiamo lavorando – fra l’altro – nel settore assicurativo e possiamo anticipare qualche curiosità come che la caduta di detriti spaziali   potrà a breve costituire un rischio assicurabile.

AB: Ancora una volta, nel celebrare la fine del Marketing (un rito ormai consolidato), finiamo invece per raccontare un altro tratto della sua evoluzione: questa metafora del ‘mercato’, come regolatore degli scambi di merci e di simboli è così tenace che intorno ad esso si organizzano ancora riflessioni, prassi, teorie, … ? Come gioca Internet in tutto questo? E’ un nuovo paradigma nel senso che è destinato a cambiare le regole del gioco, una delle variabili o una sorta di Mercato 2.0, una versione telematica di prassi millenarie solidificate ormai quasi duecento anni fa dalla Economia Classica?

EDN: Internet è una tecnologia della comunicazione, è l’espressione più avanzata di quella che va sotto il nome di ICT, Informationand Communication (sottolineo) Technology.

E’ ormai patrimonio acquisito che le modalità comunicative influiscono profondamente sulle logiche sociali. Marshall Mac Luhan ha costruito su questa idea la spiegazione delle grandi trasformazioni sociali: l’invenzione della stampa, la televisione ed ora internet hanno giocato e giocano a sostegno dei grandi cambiamenti. Ma alcune cose non cambiano: il codice distintivo del mercato sarà sempre binario e semplice e cioè profittevole/non profittevole; quel che cambia sarà il significato dato al termine ‘profittevole’. E’ innegabile che si entrerà sempre più nelle logiche dei valori immateriali … immateriali si, ma che alla fine faranno business!

AB: Torniamo alla prospettiva sociologica. Il tuo modo di vedere la società mi fa pensare alla Scuola di Francoforte ed al filone della critica della società dei consumi e dell’uomo-massa; tu mi correggi graziosamente dicendomi che in realtà tutto parte da Niklas Luhman … Allora, posso chiederti come vedi l’evoluzione sociale in atto e se – in senso generale – le cose volgono ad un epilogo o ad un nuovo inizio e per chi?

EDN: si vede proprio che su questo punto non ci siamo capiti o che fai un transfert addebitando a me un tuo orientamento! Io fino dalla fine degli anni settanta ho visto il consumo come un elemento innovativo: nell’articolo “Razionalità, simulazione, consumo”, uscito agli inizi degli anni ‘80 vedevo la centralità del consumo che si sostituiva del tutto alla centralità produttiva che aveva dominato la logica sociale forse ancor prima della società industriale. Continuai poi il discorso nel libro intitolato “Il significato sociale del consumo” della fine degli anni ‘90. Questo significa esattamente il contrario di quanto avevano detto Horkheimer e Adorno, che vedevano il consumo asservito alla logica della produzione. Se Il consumo per un certo periodo fu realmente ancella della produzione e ne seguiva le logiche strumentali (e per questo era individualista, rapace ed escludente), via via che aumentava la sua presenza nella società esso recuperava le sue logiche intrinseche che sono eminentemente analogiche e socializzanti. Ricordiamo che consumo deriva da ‘cum sumo’ o da ‘cum summa’ dove la preposizione cum introduce alla socialità, sicuramente fra gli uomini, ma anche con le cose (se si considera la seconda ipotesi etimologica). Si realizza allora una transustanziazione fra gli uomini, le cose e – perché no? – Dio. In questa chiave per nulla paradossale e naturale si possono leggere i grandi cambiamenti degli ultimi anni, che vanno dall’ambiente, alle imprese etiche, alla responsabilità sociale d’impresa, alle varie attività sociali di consumo-produzione (street-social, crowd-founding etc.).

Il futuro è pieno di cambiamenti e chi si irrigidisce sulle vecchie postazioni è spacciato. Le parole d’ordine sono: comunicazione, sinergia, immateriale (in questo è inclusa la finanza che ha una componente altamente immateriale), glo-cal, … what else?

AB: Ci siamo capiti, Egeria. Grazie della generosa conversazione!

NOTA: chi volesse approfondire la conoscenza con Egeria e la sua straordinaria esperienza non fa che chiedermelo. sarò felice di mettervi in contatto.

treno che passa in un mercato a Maeklong in ThailandiaImmagine: il vivacissimo mercato di Maeklong in Thailandia ogni mattina si espande ed invade fin le rotaie del treno fra le strette pareti della case prospicienti; ma quando passa il treno gli avventori si fanno da parte ed i commercianti in tutta fretta gli fanno strada arrotolando le tende e togliendo la merce di mezzo. Passato il treno il mercato riprende a riempire ogni spazio. Così la funzione sociale del treno è stabilita sopra ogni legittima voglia di ‘fare mercato’. D’altra parte tutti sanno bene che è proprio il treno che porta lì la gente …

Dopo l’introduzione un quick-poll (lo stesso di cui sopra) che ci aiuta a conoscere in linea di massima il vostro punto di vista sull’argomento. per commenti + estesi usate pure l’apposita sezione del blog. Grazie dell’attenzione!

 

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Troppo umano, troppo digitale?

Stavolta vi chiedo una mano: per motivi strettamente professionali sto facendo una riflessione critica sulla utilità degli strumenti di comunicazione digitale ed in particolare sui social media. Nel cercare di dare una forma all’evoluzione degli strumenti di comunicazione digitale (blog, social network, web 2.0 in senso lato) mi sono accorto di dover in qualche maniera contestualizzare e ‘mettere a terra’ il pregiudizio fortemente positivo e ottimistico con cui ho sin qui considerato questi strumenti e dovermi porre il problema concreto della loro effettiva utilità ed efficacia come strumenti di sviluppo. Così mi è venuto spontaneo condividere alcune perplessità (delle cose positive abbonda la letteratura) con chi segue il blog e chiedervi un contributo alla riflessione. Qui di seguito alcuni spunti di riflessione.

qui pro quo1. Non sono del tutto sicuro che i social media possano rivestire l’enorme efficacia potenziale che li contraddistingue finché chi li usa non avrà bilanciato la comprensibile e irreprimibile spinta a parlare di sé con un’altrettanto potente e strutturata capacità di ascoltare gli altri. Il rischio altrimenti è quello di trasformare la rete in una sterminata vetrina in cui tutti si mettono in mostra e parlano di sé e non fra loro prevalentemente preoccupati di esporre la propria merce comunicativa e ottenerne un riscontro. Ma se così fosse troppe voci si contenderebbero l’attenzione di troppe poche orecchie … anche se è pur vero che (per qualche motivo non casuale) siamo dotati di due orecchie e di una bocca sola …

2. Credo che questa considerazione valga sia nella comunicazione personale, individuale, che in quella d’impresa e rivesta direttamente anche il tema della propria identità e di come si viene percepiti: se la preoccupazione di dare una bella immagine di sé prevale sulla capacità di intrattenere un dialogo proficuo (che si tratti semplicemente di dare le informazioni che chiede il proprio interlocutore o di risolvere un semplice problema pratico) la credibilità o la propensione ad essere presi in seria considerazione (da clienti o solo da amici) ne verrà fortemente limitata. Prevarrà la preoccupazione di promuovere la propria reputazione piuttosto che migliorarla, di reagire piuttosto che migliorare, di imitare o diffondere idee altrui piuttosto che di definire una identità forte in grado di dialogare.

3. Vedo – inoltre – soprattutto nelle imprese una soverchia preoccupazione tecnica di utilizzare i social media secondo schemi conformisti costruiti a priori che assomigliano in tutto e per tutto alle prescrizioni e ricette del vecchio marketing e dei suoi strumenti di comunicazione. Eppure si tratta di mezzi molto nuovi che dovrebbero indicare strade nuove, soprattutto sul fronte relazionale. Forse il web 2.0 e i social stanno diventando semplicemente una nuova release dei media tradizionali, magari più pervasiva ma molto simile nella sostanza?

4. Mi pare – poi – di vedere che le imprese (ma questo vale anche per gli individui) che meglio sanno utilizzare i nuovi strumenti siano quelle che hanno già una forte predisposizione (ed esperienza alle spalle) nell’uso degli strumenti più tradizionali del marketing, della promozione di sé e della comunicazione e cioè imprese con risorse congrue ed una cultura consolidata. Ma questo falsificherebbe l’aspettativa che i nuovi media in generale possano essere uno strumento che abbassa la barriera competitiva a vantaggio di nuovi attori …

5. Ho poi qualche dubbio che – a parte la superficiale sensazione di essere in contatto documentabile con un numero straordinariamente più ampio di persone (e di riceverne apparente conforto nella forma di ‘like’, etc.) – ciò corrisponda ad una maggiore capacità di entrare in una relazione più forte coi propri interlocutori. Molti amici, molti like, molta visibilità … a che pro?

6. Infine mi sto convincendo che la granularità degli strumenti digitali ed il loro linguaggio così esplicito tradisca in maniera amplificata e quasi caricaturale le finalità utilitaristiche di chi li usa (magari solo per mettersi in mostra) aumentandone a dismisura il rischio di compromissione senza il rimedio costituito dalla ‘lentezza’ della relazione interpersonale. Inoltre, diversamente dalla comunicazione interpersonale, in rete l’atto comunicativo avviene alla vista di tutti e non è reversibile. Per la comunicazione d’impresa la profilassi di questo rischio porterebbe di riflesso ad annullare ogni elemento di spontaneità che pure rappresenta uno dei vantaggi delle nuove modalità di comunicazione.

Mi chiedo se questi aspetti (e molti altri che sicuramente mi segnalerete) siano un difetto intrinseco dei social media o piuttosto la manifestazione di un’occasione mancata che – per riflesso condizionato – si tende ad addebitare alla innovazione tecnologica di turno, come se il difetto fosse nella tecnologia ovvero nella sua indifferenza sostanziale ai nostri scopi e bisogni.

Mi piacerebbe sapere quale sia la vostra esperienza al riguardo. Se dalle vostre risposte ricevessi una conferma di alcune delle mie sensazioni potremmo discutere di un approccio completamente diverso al tema della comunicazione nell’era digitale: un approccio che, a fianco della necessaria dimestichezza con gli aspetti tecnici e di prammatica della comunicazione, definisse in maniera più puntuale un nuovo modello di comportamento consapevole e finalizzato alla evoluzione e ad una maggiore consapevolezza della propria identità e del proprio modo di comunicare.

Immagine: il gioco di parole scherzoso vuol mostrare che l’asimmetria comunicativa può avere i suoi effetti anche fra un numero ristrettissimo di soggetti che interagiscono. Figuriamoci in rete.

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Per pochi, per tutti, per molti …

Pitti Taste è la rassegna fiorentina che tratta il tema del Cibo all’interno di Pitti immagine. Inserito anche quest’anno nella cornice un po’ strana della stazione Leopolda a Firenze, è stato un evento molto vivace: un luogo divertente e disimpegnativo dove si può entrare in contatto con grande semplicità col meglio dei produttori italiani di cibo. C’è un’area molto vasta dedicata alla presentazione ed alla degustazione e una sorta di mini-market dove si possono comprare le cose che si son viste esposte. Ci siamo incontrati lì qualche giorno fa con Attilio Giuliani che alla perfezione assomma in sé  la passione per il marketing e quella per il cibo, essendo modenese … Francamente eravamo entrambe abbastanza a nostro agio e ben rappresentati: io – infatti – sono toscano …

segantini paesaggio alpestreA programma si è tenuto un interessante dibattito sul tema se la contraffazione dei marchi italiani del cibo (parmigiano, mozzarella, pasta, etc.) fossero solo un danno o anche una opportunità per i produttori. Diversi gli interventi ma essenzialmente riconducibili a due posizioni fondamentali: coloro che facevano appello alla normativa tout-court e ad altre forme di difesa corporativa e coloro che insistevano che la vera difesa di un mercato è l’iniziativa commerciale. Al dibattito partecipavano diversi rappresentanti dei produttori consorziati, Confagricoltura e anche Tom Mueller (autore di un interessante inchiesta sull’olio italiano incentrato ironicamente sul concetto di ‘extraverginità’), Oscar Farinetti (ormai mitico fondatore di Eataly) e Oliviero Toscani (carismatico fotografo che ha un po’ rivoluzionato la fotografia commerciale, qui nella veste inusitata di produttore di olio)

Nel dibattito si faceva notare come nell’uso dei marchi altrui nessuno fa eccezione visto che le nostre azienda fashion usano da sempre e con grande disinvoltura nomi tipo ‘jeans’ che sono di chiara matrice USA (seppure qualcuno si esercita anche nella esegesi che si tratti in origine di un nome genovese; cui poi in francesi ribattono che no, si tratta della città di Nimes, ci mancherebbe!).

Ma a parte il dibattito di principio, il tema non era così accademico: in fin dei conti si parlava di un settore importante industria importante per l’Italia perché assomma diverse valenze notevoli essendo fonte di occupazione, portando un’immagine altissima all’export, riflettendo – infine – perfettamente il nostro italico modo di (non) fare sistema eppure di vincere quando vogliamo e ci sono le condizioni adatte … qualcuno poi stimava (queste benedette stime economiche campate in aria) che si potesse trattare di un potenziale danno di miliardi di euro.

A parte le schermaglie, da punto di vista della nostra riflessione la vera sintesi la si è raggiunta faticosamente solo dopo un’ ora grazie agli interventi illuminanti di tre persone:

Mario Cichetti, il presidente del consorzio del prosciutto San Daniele (nel ruolo ideale del produttore) ha fatto capire che la coerenza e la profondità del concetto di qualità (almeno nel food) va fino alle fonti e cioè alla materia prima: non basta essere dei bravissimi trasformatori, bisogna anche allevare i capi (in questo caso). Una faccenda non da poco se si pensa – per esempio – che la produzione di latte in Italia potrebbe non essere sufficiente se si volesse produrre molto più formaggio in diverse varietà e di grande qualità esclusiva in quantità significative. Seppure molte cose son state fatte in Italia anche con grande onestà, la questione si complica quando implica scelte di fondo che forse abbiamo qualche difficoltà a fare visto che – come si ricordava – il disciplinare della mozzarella di bufala (non propriamente un prodotto aerospaziale … ) fluttua da anni da un ministro a quello successivo.

Oscar Farinetti (nel ruolo di mercante che ben gli si addice) ha fatto un intervento straordinariamente persuasivo perorando la causa della costituzione (ma quante volte ci abbiamo provato?) di un marchio ITALIA da apporre a tutti i prodotti senza distinzione che possano provare di essere di provenienza nostrana, dalla materia prima al prodotto finito; segue corollario di idee su come fare il lancio dell’iniziativa perché possa avere un successo planetario … Farinetti su queste cose va lasciato stare …

– e infine Oliviero Toscani che, nel ruolo perfettamente calzante del filosofo morale, obiettava a Farinetti che per realizzare la sua idea brillante ci vorrebbe un grado di cooperazione, solidarietà, onestà e trasparenza fra i produttori inimmaginabile per la nostra cultura e mentalità dove noi eccelliamo come individui ma come aggregato siamo assolutamente trascurabili: noi che – ricordava Toscani – siamo arrivati alla qualità dopo che fin solo a trent’anni eravamo quelli che facevano il vino con l’etanolo!

segantini paesaggio 2Queste tre posizioni disegnano una contraddizione ma anche un monito che dobbiamo affrontare a viso aperto, adesso: le persone per anni hanno consumato in grande quantità a poco prezzo cose di poco valore e adesso che ci sono gli strumenti cognitivi, culturali ed anche un mercato per l’eccellenza, la stragrande maggioranza non ha soldi in tasca per permettersela … Cosa possono fare i  nostri produttori ed i distributori per risolvere questa contraddizione da cui dipende una bella fetta delle loro speranze di sviluppo? Come aprire una nuova prospettiva per l’eccellenza di cui possa beneficiare anche il mercato interno e non solo l’esportazione? In generale (perché il quesito non riguarda solo il food ma anche – per esempio – la moda o il turismo e – perché no – anche l’automotive): è possibile che luxury (ammesso che questa sia la parola giusta) possa significare un’esperienza distintiva per i più e non solo un’esperienza discriminante per pochi? E come possiamo e con quali strumenti operativi chiarire una volta per tutte la nostra vera vocazione ed intraprendere   e comunicare un cammino di utilità? Noi come italiani, intendo. Questo si che potrebbe essere un vero Rinascimento, cioè un modo con cui facendo bene si mostrino al Mondo valori che altri desiderino fortemente imitare.

PS: mentre abbozzavo questo post: in questi giorni apre a Milano un altro punto di vendita di Eataly e son subito code per entrare. Poco prima in Toscana apre l’ennesimo punto vendita (il secondo nella regione!) di Ikea ed anch’esso viene preso d’assalto. Due segnali ben distinti nelle loro conseguenze: il primo è un segnale confortante in assoluto; il secondo è un’altro segno della decadenza, tanto più che non molto tempo fa non lontano da quella zone del pisano c’era un distretto del mobile piuttosto sviluppato e praticamente morto senza nemmeno combattere. Perché?

immagine: Giovanni Segantini (qui due suoi paesaggi alpestri) alla fine del ‘900 inaugura la tecnica divisionista (di cui resta uno dei massimo esponenti): piccole macchie di colore riflettono individualmente al meglio la luce del sole ma da una certa distanza il soggetto si ricompone in un tutt’uno dove la profondità è letteralmente inondata dalla luce.

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Conversation with Alberto Consani on trade network marketing (English version)

Today let’s talk about sales networks with Alberto Consani who committed, in years, to working in sales & marketing operations. After a long experience in multinational IT companies, he started to engage in developing new approaches to sales process through indirect channels. Alberto dedicates to this area every professional effort, surfing the tremendous evolution of sales in the age of internet: experimenting -though – that also traditional networks are a very strong tool for producers and network owners; they are still at the heart of every commercial endeavor and development. Alberto’s underlying philosophy is that sales are a complex process that, for historical and cultural reasons, in Italy is not managed like such; his a tout is an holistic and integrated approach, consisting of 4 essential ingredients and a very innovative use of proven technologies, that I will try to have him explain plainly.  Alberto collaborates  with Naima on these specific issues. 

ABAlberto, there seems to be a renewed attention to network ab2marketing, that is, the set of practices and tools that enable manufacturers and distributors to cooperate in control and development of new markets. Can you help us understand the evolution in action?    AC: Yes Alessandro, though it is not something new that Manufacturers and Distributors constantly seek to settle the balance of power that characterized so far the business of distributing branded products; the news  is the digital revolution that, on the one hand, gives the consumer/customer all the “information” about the product, and, on the other, (fortunately) still cannot substitute him in the choise or use of it. Therefore the Distributor has the opportunity to take on a new “value-added” role, in line with and taking advantage of this digital transformation: it can become a Partner of the Retailer, equipping it of tools and services to increase sales volumes and margins on that product, and it may collect and integrate informations on the Retailer, making them valuable analysis for the Manufacturer.  

AB: How does the size of the company and sectors play in this evolving context?   acAC: Size matters still but it is the sector that plays a determining role in the success of a “sales transformation” intervention, as we call it. If the necessary “capabilities” (better call them skills) to maximize efficiency and effectiveness of sales processes are almost always the same, the way to implement them and make them work in one sector or another will change much; look – for example – at the role of the sales representative in the pharma sector, whose facilitating role in the creation of demand for pharmaceuticals in the pharmacy is crucial and peculiar of this business: in Italy we even call them traditionally informatori scientifici to stress the point …

AB: You claim that sales are essentially a matter of process and an holistic and integrated approach. The dominant culture – especially in Italy – has it that sales are made ​​of product, seasoned with talent, skills and relational systems. The methodical approach is a bit in the background, while, in the Anglo-Saxon culture, methodical approach to sales is considered the true discriminating factor. What do you think about it?     AC: Well, in my opinion the ingredients in this recipe of success are only four: 1. those Processes (we call them “Best Practices”), which have already proved to determine the success of the leading companies in the sector … because after all it is useless to invent in a world full of good examples to imitate …, 2. People who are motivated and ready to change,  3. new cloud-based Planning tools and automation of sales force (this is the true and simple innovation) and 4. well-planned Programs of cooperation with indirect channels: these have to be easy to implement and measurable in its results.

Regarding your remark about our domestic context, if it were really so, there would not be so many Italian companies with excellent product that, when faced with the commercial challenge abroad, realize to have forgotten that sales are as important as the product!

AB: One of the key elements of your approach is that of the recovery of the technologies and systems already in use and the use of the cloud, right?      AC: Honestly, I would not call it “recovery”, but repetitive and systematic use of basic elements, designed to be combined with a specific purpose. Let me use an example to explain better: take the Lego bricks. Everyone knows that with the same brick you can build an endless number of different constructions. The long-lasting success of this game derives from the sophisticated (and yet seemingly simple) system that holds together bricks of different sizes through a single standard mechanism of interlocking, with no screws or bolts.

We can do the same thing in marketing operations, sales and cooperation, between the various business departments, and between the company and the various direct and indirect channels (no matter how sophisticated the multi-channel logic will be). And here I come to answer to your question: the Cloud is the mechanism by which you can almost magically build anything as with a Lego box. With the Cloud you can forget about the technology (extremely complex) to devote all available resources to design the best process for the specific company, at costs 70-80% lower (no kidding!) than the traditional IT achievements … and far better results; provided  that those who assemble the bricks are “sales” expert and not computer expert!

AB: I was too increasingly getting the sense that cooperative CRM platforms in the market were a little too rigid an instrument to organize sales activity and – in any case – a source of friction between the seller, who often does not get any tangible advantage in using it, and the company that wants to control his activity … You – instead – hold that these solutions, when used to model the sales process, are also useful to redefine the relationship between the network owner or manufacturer and  the network, with obvious benefit for both. Can you explain how?    AC: I am glad you asked! (A bit of rhetoric …). This is the key to everything else: what if I coiuld show you that with four ingredients of a recipe of success and realizing the “building blocks” of the sales process directly on the cloud? So that you can put together the manufacturer, the distributor and the dealer and maybe even the end customer, and you can actually “build” the business process so as to render the interaction of the various actors profitable for all.  On the other side over 70% of investments in CRM fails or brings deeply disappointing results!

But why? Well, around the traditional CRM there gathers a series of fatal errors: for example, you forget to model a sales solution so that those who must use it (the seller or the sales agent) will have an advantage in terms of efficiency, effectiveness and personal gain. How can you force an agent to do something that does not suit him, when he is an independent contractor, often multi-agent, attentive to the costs and returns of his activity and thus strongly inclined to spend his time where it is more favorable? Everyone knows it, but no one takes it into serious account when choosing a CRM platform, because that is still considered a choice of ‘a technological kind’. In the end, no one will  want to associate with the poor results of the implementation phase; in the end the system will often sadly belong only to IT.

AB: I think you made a clear point … Another aspect that intrigues me: we are used to think that a deep cooperative approach with networks can only take place in the forms of direct distribution or maybe very strict franchising formats. But you claim that these new approaches are very lean, effective and efficient also in non-exclusive sales mandates. How is that possible?     AC: No matter what the contractual format, it is the “win-win” philosophy that really counts, that be franchise or contract of resale, distribution or agency. The contract governs the transfer of ownership and many other things created to protect the various players along the value chain. But here we are not talking about how to protect anyone, but how to develop business “together”, by sharing the benefits realized! We are talking about benefits realization! Moreover, this is also true in an organization with direct sales agents, where experience shows that you cannot appeal to the fact that a sales agent is an employee and therefore ‘obliged’ to do what the company commands. Here, too, if there is no personal gain for the sales agent, there lacks one of the two “win” and, in the end , the benefit will simply not come true even on the other part.

AB: New tools and new methods … What is – however – the meeting and balance point between the partly conflicting objectives of the network-owners and their networks? We are accustomed to think of it as a dialogue essentially regulated by merchant fees …    AC: The meeting and equilibrium point is the presence of a business model that works and a “business case” (only one) that promises attractive returns for both parties. If this is in place, you can always run and adjust everything else, provided you remember the 4Ps recipe!

AB: Can you tell our readers where have you recently experienced these approaches? What are the metrics and the results? How long does it take to see the benefits?    AC: As you know, I and my team have very recently achieved great results in the medical and telecom mid-market sectors, two areas where the sales process is very articulated and very competitive! Because of the cloud and the fact that we have already implemented most of the bricks needed, the go-to-market is far less affected by IT constraints. Anyhow, we are talking about a handful of months for companies of great complexity, and weeks for small or medium companies. Forget the long time of completion of a traditional CRM project. And forget also the dreadful risks related to it! Here you go ahead with a fast-prototyping fashion, that realizes (maybe partial but) immediate results and then will give you time to complete the picture. We call it ‘quick-win’, and it focuses the returns on most promising initiatives, reducing costs and time, and encouraging the momentum of a triggering imitative factor.

AB: Many argue that the evolution of marketing sees the progressive collapsing of the traditional distinction between traditional business-to-business and business-to-consumer models, especially in terms of approaches and tools. All this would happen because of the availability through the cloud of communication and transaction tools, that were once the exclusive domain of one or the other segment. What do you think about it?   AC: I totally agree. It is clear that for a while … well, it will still be different selling an aircraft carrier to the Navy Department of a foreign state from providing a pressure gauge to a pharmacy … but in fact, preserving the inherent complexity of the sale, there is always a manufacturer (the first B of the business) and a customer / consumer/ patient/ client at the other end of the deal. We have coined the acronym B2B2C+, just to illustrate this concept.


zen-garden-2AB: You have a strong international experience, and yet you decided to work from Italy and in Italy. Why? Do you think there is a case for the success of a radical innovation in sales method in this country? Is there some other professional reason?
    
AC: For many years I worked as a luxury commuter with offices in London, Brussels, Amsterdam, and Dallas; part of a fairly large group of Italians with positions in foreign multinationals; … and I really enjoyed myself very much. Like many of my colleagues, I have proceeded in my career maybe faster than my German, French, Dutch, etc … colleagues, thanks to the magic combination of imagination and flexibility, typical of Italians, combined with the rules, processes and discipline of multinational corporations.

In recent years I felt the vast majority of multinational companies were beginning to implode, just cutting costs and ceasing to innovate. Experts predict a future with very few large multinational companies still in business and a network of small and even very small companies that make innovation and dynamically aggregate also on very complex and large projects.

That said, having the good fortune of being able to choose to do what I love most in my “second career” (as I call it), I have chosen to apply the best of what exists in the world (to which I draw thanks to my international network) to the Italian economic texture, where we all hope to undertake a second Renaissance; as you can see, I am an irreducible optimist!

Thanks Alberto and best wishes for your second career, as you call it!

Image: in zen gardens a rock dominates over the sand thus influencing everything around. Its signage irradiates, communicating both its form and might. At the same time other rocks will generate their own influence in return, in an asymmetric wave of communication. Resembling fluid dynamics or maybe also a social network or the taxonomy of an articulated open system. Incredibly simple and effective. 

If you want to get in contact with Alberto please write at info@naimaconsulting.it or directly contacting +39.329.8144699

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Conversazione con Alberto Consani sul marketing di rete

Oggi parliamo di reti di vendita con Alberto Consani che si dedica da anni ad attività di sales & marketing operativo. Dopo una lunghissima esperienza in multinazionali IT ha sentito il desiderio di cimentarsi nello sviluppare nuovi approcci alla realtà delle vendite tramite canali indiretti capaci di operare in armonia con quelli diretti e con le sempre più importanti attività social. A questo contesto oggi Alberto dedica ogni sforzo professionale nella convinzione che sia un momento di evoluzione molto interessante: le reti restano anche nell’era di internet uno strumento fortissimo per produttori e network owners, sono il fulcro dello sviluppo commerciale. La filosofia di fondo di Alberto è che le vendite sono un processo complesso che per ragioni storiche e culturali in Italia non viene gestito come tale (come un processo complesso per l’appunto); il suo atout è un approccio olistico ed integrato composto di 4 ingredienti essenziali e  di un uso molto innovativo di tecnologie consolidate, che proveremo a farci spiegare.

Alberto collabora con Naima su questi temi specifici.


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Alberto, sembra che ci sia una rinnovata attenzione al marketing di rete, cioè a quell’insieme di prassi e strumenti che consentono ai produttori e distributori di cooperare per il presidio e lo sviluppo di nuovi mercati. Ci aiuti a capire l’evoluzione in atto? 

ac

  AC: Si Alessandro, se non è certo una novità che Produttori e Distributori cerchino costantemente  il punto di “equilibrio” su cui assestare i rapporti di forza che hanno contraddistinto  sino ad ora le attività di distribuzione di prodotti a marchio; la novità che oggi impone cambiamenti sostanziali nella filiera è la rivoluzione digitale che da un lato dà al consumatore / cliente  tutte le “informazioni” sul prodotto e dall’altro non riesce ancora ad aiutarlo a scegliere o ad usarlo al meglio.

 Il Distributore ha la possibilità di assumere un nuovo ruolo “a valore aggiunto” in linea con questa trasformazione digitale: può diventare un Partner del PdV dotandolo di strumenti e servizi per aumentare volumi e margini del PdV su quel prodotto, dall’altro può collezionare ed integrare le informazioni sul PdV facendole diventare analisi preziose per il Produttore.

AB: La dimensione aziendale ed il settore di appartenenza come giocano in questo contesto evolutivo?  AC: La dimensione conta ma è più il settore che gioca un ruolo determinante nel condizionare il successo di un intervento di “sales transformation” come lo chiamiamo noi. Se le “capabilities” (in italiano si potrebbe chiamarle abilità) necessarie a massimizzare efficienza ed efficacia dei processi di vendita sono quasi sempre le stesse, il modo di metterle in barriera e di farle funzionare in un settore piuttosto che in un altro cambia molto ed in alcuni casi sono specifiche di un solo settore come il ruolo dell’informatore scientifico il cui ruolo di facilitatore nella creazione della domanda di prodotti farmaceutici nella farmacia è determinante e peculiare per questo settore.

AB: Tu sostieni che le vendite sono essenzialmente un fatto di processo e approccio olistico ed integrato. La cultura dominante – soprattutto in Italia – è che le vendite siano un fatto di prodotto condito di talento, abilità e sistemi di relazione. L’approccio metodico resta un po’ sullo sfondo, mentre nella cultura anglosassone la metodicità dell’approccio alle vendite è considerato il vero elemento discriminante. Cosa te ne pare?    AC: Si, in effetti gli ingredienti che compongono la ricetta di successo sono solo quattro: 1. quei Processi (le chiamiamo “Best Practices”) che hanno già dimostrato di decretare il successo delle aziende leader di settore; perché è inutile inventare in un mondo pieno di buoni esempi da imitare;  2. persone motivate e pronte al cambiamento; 3. nuovi strumenti di pianificazione ed automazione delle forze di vendita basati su cloud (questa è la vera e semplice innovazione) e 4. programmi ben articolati di collaborazione con i canali indiretti, facili da attuare e misurabili nei risultati.

Quanto alla tua osservazione sul nostro contesto, se fosse veramente così non ci sarebbero così tante aziende italiane con prodotto di eccellenza che quando affrontano la sfida commerciale all’estero si accorgono di aver dimenticato che le vendite sono tanto importanti quanto il prodotto!

 AB: Uno degli elementi fondamentali del tuo approccio è quello del recupero delle tecnologie e sistemi già utilizzati e l’uso del cloud?     AC: Francamente non lo chiamerei “recupero”, quanto uso ripetitivo e sistematico di elementi-base pensati per essere combinati ad uno scopo specifico. Lasciami usare un esempio per spiegarmi meglio: hai presente i mattoncini del Lego? Tutti sanno che con lo stesso mattoncino si possono costruire un numero infinto di costruzioni diverse. Il successo di questo gioco senza tempo deriva dal sofisticatissimo (eppure all’apparenza semplicissimo) sistema che tiene assieme mattoncini di diverse dimensioni tramite un unico meccanismo standard di incastro senza viti e bulloni.

Noi stiamo facendo la stessa cosa nel mondo del marketing operativo, delle vendite e della collaborazione tra i vari dipartimenti aziendali, e tra l’azienda ed i vari canali diretti ed indiretti (per quanto sofisticate possano essere le logiche multicanale). E qui vengo alla risposta alla tua domanda: il cloud è quel meccanismo quasi magico con cui posso costruire qualunque cosa come col Lego. Col cloud ci si può dimenticare della tecnologia (estremamente complessa) per dedicare tutte le risorse disponibili a progettare il miglior processo per la specifica azienda, a costi del 70-80% inferiori (non sto scherzando!) rispetto a realizzazioni IT tradizionali e con risultati molto migliori “a patto” che chi assembla i mattoncini sia un esperto delle “vendite” non un esperto informatico!

AB: Prima di incontrarti mi stavo sempre più formando l’idea che le piattaforme di CRM cooperativo di mercato fossero nella pratica uno strumento un po’ rigido per organizzare l’attività di vendita e – comunque – un motivo di frizione fra venditore che spesso non ne trae utilità e l’azienda che ne vuole controllare l’attività … Tu – invece- sostieni che queste soluzioni, se utilizzate per modellare il processo di vendita, servono a ridefinire anche la relazione fra network owner o produttori e la rete a beneficio evidente di entrambi. Ci spieghi come?     AC: Sono contento che mi fai questa domanda! (come dicono un po’ retoricamente gli americani …). A parte gli scherzi, questa è la chiave di tutto. Se sono riuscito a spiegare che con quattro ingredienti di una ricetta di successo e realizzando i “mattoncini“ del processo di vendita direttamente sul cloud, allora si possono mettere insieme il produttore, il distributore il commerciante e magari anche il cliente finale e si “monta” il processo commerciale che fa interagire i vari attori in una logica che sia remunerativa per tutti. Non è difficile a questo punto immaginare perché il vecchio concetto di “piattaforma CRM“ è obsoleto e soprattutto non è mai riuscito a generare i ritorni dell’investimenti attesi: oltre il 70% degli investimenti in CRM fallisce o porta risultati profondamente deludenti.

zen-garden-2Intorno al CRM tradizionale si aggregano una serie di errori fatali: per esempio ci si dimentica di modellare una soluzione di vendita in modo che chi la deve usare (il venditore o l’agente di commercio) ne abbia un vantaggio in termini di efficienza, efficacia e tornaconto personale. Posso forse obbligare un agente a fare qualche cosa che vuole l’azienda se non gli conviene, visto che è un imprenditore autonomo, spesso multi-mandatario, attentissimo ai costi ed ai ritorni della sua attività e fortemente propenso a  spendere il proprio tempo dove più gli conviene? Tutti lo sanno ma nessuno se lo ricorda quando si sceglie una piattaforma CRM, perchè quella è una scelta a ‘sovranità tecnologica’. Di più, ognuno si estranea dal risultato già nella fase implementativa; spesso quel sistema appartiene solo all’IT.

AB: Penso tu sia stato chiaro … Un’altro aspetto che mi incuriosisce: siamo abituati a pensare che un approccio di cooperazione profonda con le reti possa avvenire solo in forme di distribuzione diretta oppure in formule di franchising molto impegnative. Ma tu sostieni che questi nuovi approcci molto snelli ed efficienti sono molto indicati anche in presenza di situazioni di non esclusiva. Com’è possibile?     AC: E’ la filosofia “win-win” che vale sempre, in ogni contesto contrattuale, che sia franchising,  o un contratto di rivendita, distribuzione o agenzia. Il contratto disciplina i passaggi di proprietà e tante altre cose nate per proteggere i vari attori della filiera. Ma qui non parliamo di come proteggerci, ma di come sviluppare business “assieme” condividendo i benefici generati! Peraltro questo vale anche in un’organizzazione con venditori diretti dove l’esperienza insegna che non si può fare leva sul fatto che un venditore sia “dipendente” e quindi tenuto a fare quanto serve all’azienda. Anche qui se non ci sono dei vantaggi personali per il venditore manca una delle due “win” e non si realizza alla fine neanche l’altra.

AB: Nuovi strumenti e nuovi metodi. Qual’è – però – il punto di incontro e di equilibrio fra gli obiettivi in parte divergenti di network-owners e delle loro reti? Siamo abituati a pensare ad un dialogo regolato essenzialmente dal fattore provvigionale …   AC: Il punto d’incontro e di equilibrio è la presenza di business model che funzioni e di “un business case” (uno solo) che prometta ritorni interessanti per entrambe le parti. Se c’è questo si riesce sempre a far funzionare tutto il resto a patto ovviamente che  non si dimentichi la ricetta delle 4P.

AB: In quali contesti hai potuto sperimentare recentemente questi approcci? Quali sono le metriche ed i risultati? Quanto tempo ci vuole per vedere il vantaggio?   AC: Io ed il mio team abbiamo già ottenuto risultati egregi nel mondo medicale ed in quello delle telecomunicazioni, due settori dove il processo di vendita è molto avanti e molto competitivo! I tempi di realizzazione non soffrono più del vincolo IT grazie al Cloud ed al fatto che noi abbiamo già realizzato buona parte dei mattoncini che servono. Parliamo di un pugno di mesi per aziende di grande complessità, settimane per aziende medio-piccole. Scordati gli annosi tempi di realizzazione di un progetto CRM tradizionale e scordati i rischi spaventosi ad esso connessi! Qui si va avanti con una logica di fast-prototyping che realizza risultati magari parziali ma immediati per poi dare il tempo di completare il quadro. Questa logica, che tu chiami ‘quick-win’, concentra i ritorni sulle iniziative più promettenti, riduce i costi ed i tempi e incoraggia la prosecuzione innescando un fattore imitativo.

AB: Molti sostengono che l’evoluzione del marketing vede progressivamente cadere la distinzione tradizionale fra business-to-business e business-to-consumer, soprattutto in termini di approcci e di strumenti. Tutto ciò accadrebbe proprio per la disponibilità via cloud di strumenti di comunicazione e transazione che un tempo erano esclusivo appannaggio di uno o dell’altro segmento. Cosa ne pensi?    AC: Sono assolutamente d’accordo. E’ chiaro che per un po’ … sarà ancora diverso vendere una porta-aerei al Ministero della Marina di uno stato straniero piuttosto che un misuratore per la pressione ad una farmacia ma di fatto, fatta salva la complessità intrinseca della vendita, c’è sempre un produttore (la prima B del business) ed un cliente / consumatore / paziente / utente all’altro capo delle filiera. Noi abbiamo coniato l’acronimo B2B2C+ proprio per illustrare questo concetto.

AB: Tu hai una forte esperienza internazionale eppure hai deciso di operare dall’Italia e in Italia. Perché? Pensi che ci siano i presupposti per il successo di una radicale innovazione di metodo nelle vendite nel nostro Paese? C’è qualche altro motivo?    AC: Per molti anni ho lavorato come pendolare di lusso con uffici a Londra, Bruxelles, Amsterdam, e Dallas, parte di un gruppo abbastanza numeroso di italiani con posizioni di rilievo in multinazionali straniere e mi sono veramente divertito moltissimo.

Come molti dei miei colleghi ho sempre fatto più carriera dei colleghi tedeschi, francesi, olandesi, ecc. grazie alla combinazione magica di fantasia e flessibilità tipiche degli italiani combinata con le regole ed i processi delle multinazionali.

Poi la grande maggioranza delle multinazionali ha cominciato ad implodere tagliando costi e smettendo di innovare. Gli esperti predicono un futuro con pochissime grandi multinazionali che fanno mercato e network di piccole e anche piccolissime aziende che fanno innovazione e si aggregano dinamicamente su progetti anche complessi.

Ecco, avendo la fortuna di poter scegliere di fare quello che mi piace di più nella mia “second career” (come la chiamo) io ho scelto di applicare quanto di meglio esiste al mondo (a cui attingo grazie al mio network internazionale) al tessuto economico italiano che speriamo tutti intraprenda un secondo rinascimento; sono come vedi un irriducibile ottimista !

Grazie Alberto e auguri per la tua second career, come la chiami tu!

immagine: nei giardini zen l’elemento della pietra si staglia dal fondo e irradia la sua influenza su tutto ciò che la circonda. Il suo segno si irradia verso l’infinito comunicando la forma e la forza fisica che la distingue da tutto ciò che c’è intorno. Contemporaneamente altre pietre generano la stessa influenza in una rete di rimandi che non è per niente simmetrica eppure esprime immediatamente tutta la sua potenza comunicativa. Incredibile semplicità ed efficacia.

Chiunque volesse approfondire i temi trattati con Alberto può farlo contattando info@naimaconsulting.it oppure chiamando direttamente +39.329.8144699

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Ma la rete dove va? Appunti da discutere su Web 2.0 (parte 3)

(SEGUE … da parte 2)

E’ evidente che gli strumenti analitici del web-marketing sono straordinari e che il livello di accuratezza dei dati è assolutamente micrometrico: provate a guardare le statistiche della vostra pagina Facebook o del vostro blog (se ne avete uno) o i Google Analitycs del vostro sito e rimarrete esterrefatti dal livello di dettaglio e accuratezza e anche dalla mole dei dati disponibile. Purtroppo si tratta pur sempre di metriche che si riferiscono al comportamento di un soggetto in un contesto circoscritto, per quanto si voglia pensare il contrario; cioè vasto in quantità ma ristretto nel genere. Dunque resta da stabilire una correlazione fra questa micrometrica frequentazione del serraglio digitale e le intenzioni vere di chi lo frequenta una volta uscitone (ammesso che ne esca). Le nostre motivazioni, inclinazioni, abitudini e che si tratti di un atto di acquisto, di una visita in negozio, di un voto o di una manifestazione qualsiasi di concreto interesse, esse restano largamente imprevedibili anche se influenzabili.

Molti si lamentano che pur ricevendo molti ‘like’ o anche commenti fanno fatica a capire quale possa essere l’inclinazione reale di chi li esprime.

glenn gould on his chairPrima le agenzie pubblicitarie tradizionali con pochi clienti riuscivano a controllare (letteralmente) budget milionari (in euro) e oggi che molte di loro si sono trasformate in web-agencies devono rispondere (senza saper bene cosa dire) alle domande e aspettative spesso mal riposte di migliaia di esigentissimi micro-clienti che vanno dal ristorante appena aperto, alla catena di franchising (che fa digital marketing per conto dei suoi affiliati), alla azienda media che magari si affaccia all’estero, alla multinazionale.

Le questioni di fondo da ragionare sono tutte incredibilmente familiari:

1. E’ un bene che la comunicazione viaggi sulla quantità anziché sullo specifico? E’ preferibile che dia poco a molti o tanto a pochi, che selezioni o espanda, e soprattutto: quale utilità e beneficio fornisce e a chi?

2. E’ astuto usare la componente sociale del web per insinuare valori di tornaconto economico o alla lunga è controproducente? E con quale scusa lo si può fare, con quale giustificazione? Le imprese possono davvero esprimere un valore sociale sufficientemente svincolato dal loro tornaconto economico da poter essere accettato e fruito dai più?

3. Se lo spazio di comunicazione raggiungibile dalla rete è ormai già così affollato, non conviene  – forse – dedicare ancora più attenzione a sviluppare contenuti di prodotto e di servizio fortemente distintivi e che creino valore sostenibile nel tempo e affidare a loro il nucleo della strategia di comunicazione? E usare i diversi canali di comunicazione in maniera tattica chiedendosi sistematicamente, dati alla mano e sale in zucca, se essi siano (e come) davvero funzionali ad esprimere e difendere un valore distintivo.

Tutto come prima? ovviamente no. Chiunque si occupi di comunicazione queste domande se le deve porre in maniera sistematica e con un pizzico di anticonformismo; gli individui, sempre più evoluti, se le pongono già. Così, lo sviluppo della ‘téchne‘ ancora una volta invece che esimerci dal pensare e sperimentare e poi pensare ancora, ci costringe a farlo ad un livello più sottile … e impegnativo e ad un ritmo meno confortevole.

Nell’immagine il pianista canadese Glenn Gould sulla sua bassa e scassatissima famosa sedia. Solo un aspetto evidente di un modo di suonare del tutto eccentrico che ha rivoluzionato il modo di intendere la musica classica (a partire da Bach). Ma quando si suona a certi livelli di eccellenza ed intensità totale si ridefinisce completamente l’ambito in cui si agisce e anche le regole del gioco. Si produce un impatto così forte, profondo e duraturo che il segnale, anziché perdersi, viene colto trasformato e rinforzato lungo il suo percorso in maniera imprevedibile e spontanea. Quelli come Gould si possono sedere su qualsiasi cosa e la sua è una lezione di comunicazione estremamente radicale.

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Ma la rete dove va? Appunti da discutere su Web 2.0 (parte 2)

…. SEGUE da Parte 1 …

2. molte aziende (anche micro-imprese) stanno investendo su Facebook sempre di più: il modello social  attira l’attenzione delle imprese globali in cerca di nuovi pubblici che le aspettative del ristorante dietro l’angolo cui consente di parlare di sé diffusamente, in maniera semplice e coinvolgente e la possibilità di comprare dei link per aumentare la propria visibilità. I social hanno avvicinato qualsiasi dimensione d’impresa ad un nuovo modo di fare marketing. Fantastico.

Gli inserzionisti però (e soprattutto quelli piccoli e con poca dimestichezza con la comunicazione) sono già incontentabili e lamentano – sorpresi – l’assenza di un qualsivoglia modello che li aiuti a correlare l’interazione che realizzano sui SN  con i loro potenziali clienti (p.e. attraverso i ‘like’) coi ritorni sia in termini di vendite che di store-traffic.

In effetti dietro alla interazione apparentemente così facile e spontanea, dietro al numero di contatti che si moltiplicano ed agli apprezzamenti dichiarati, resiste (e anzi si accentua) sembri si accentui ancor più la necessità di una segmentazione del mercato, cioè una abilità e competenza verticale e molto impegnativa. I comportamenti dei giovani – per esempio – aldilà dell’apparente convergenza sugli stessi media (cosa che peraltro era già avvenuta ai tempi della TV) hanno aspettative e comportamenti fortemente divergenti rispetto al resto della popolazione fra di loro: si muovono non come un segmento compatto ma come insiemi tribali che migrano da un’interesse all’altro senza una logica apparente. E così vale per altri segmenti tradizionali come i cosiddetti affluent o per segmenti geografici o etnici.

Neil young on the beachNell’uso dei social network c’è – poi – una contraddizione di fondo destinata col tempo a diventare un elemento di frizione: la sfera della relazione sociale viene utilizzata per inserire valori di tipo schiettamente ed esclusivamente economico, spesso introdotti surrettiziamente attraverso una relazione magari di conoscenza, curiosità, affinità o amicizia. Ma come persone siamo poi così sicuri di voler trasformare in transazioni con un valore economico le nostre relazioni? Siamo pronti ad accettare che tutto, ma proprio tutto ciò che facciamo e pensiamo e a cui siamo interessati abbia un risvolto di interesse prettamente economico? E in cambio di cosa? Della fruizione, ancorché vantaggiosa, di un bene, di un prodotto? Forse, paradossalmente, ci viene il dubbio che persino i nostri interessi economici soffrano del fatto che non vi sia una sfera ampia abbastanza della nostra interazione sociale libera da regole di contropartita e vantaggio economici. Dubbio.

Le web-agency e i consulenti di marketing digitale che dicono? Beh, sono molto cauti, ancor più che quando si riferiscono ai media tradizionali, di cui ormai dominano contesto e meccanismi; e quando parlano di redemption di una iniziativa di comunicazione digitale si riferiscono in verità al successo editoriale e cioè al fatto che sia ‘stata vista’ e non certo alla propensione all’acquisto. Così, orientarsi non è banale: recentemente il responsabile del marketing digitale di una società di telecomunicazione (che peraltro investe molto e sempre di più in SN) alla domanda di cosa sarebbe successo se la sua azienda avesse spostato sul canale digitale tutti i suoi investimenti di comunicazione tradizionale, ha risposto molto seriamente che non ne aveva la più pallida idea e che per questo gli investimenti erano da considerarsi non alternativi. Questa incertezza si riferisce alla dimensione dell’opportunità ma anche alla incertezza sulle prospettive di queste forme di comunicazione ed interazione.

Non finisce qui …

immagine: in questa bella foto di copertina Neil Young scruta il mare come aspettando qualcosa e lasciando alle spalle desolati e inutilmente assortiti, i simboli tradizionali del comfort balneare. Il disco ‘On the beach’ – riuscitissimo – è stato però per lui un’opera di transizione dal successo che lo aveva accompagnato nella prima fase della sua carriera solistica ad un futuro denso di incertezza. Una delle canzoni dell’album si intitolava: “See the sky about to rain” … vedi com’è il cielo quando sta per piovere … 

(CONTINUA …)

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Ma la rete dove va? Appunti da discutere su Web 2.0 (parte 1)

La Rete 2.0 è molto diversa da quella con cui abbiamo avuto dimestichezza fino a qualche tempo fa. La rete tradizionale che prometteva di essere uno strumento per comunicare, informare e fare impresa del tutto alternativo si sta trasformando rapidissimamente in un super-market-place planetario nel quale la componente social=condiviso=free come la immaginavamo va un po’ a farsi friggere. Allora forse è utile capire meglio le dinamiche in atto, magari discutendone dal punto di vista soggettivo e dell’impresa.

Digitalis_purpurea_-_Köhler–s_Medizinal-Pflanzen-053La svolta – paradossalmente – si compie proprio attraverso il successo dei Social Network, che sono apparentemente la componente meno ‘commerciale’ della rete: dietro al loro strato sottile di social virale un po’ naive avanza (mal celata) una enorme e piuttosto familiare macchina pubblicitaria. Il confronto fra l’uso promozionale di Google e Facebook ci aiuta a capire meglio l’articolazione di questa evoluzione.

1. Google resta un punto di riferimento per la visibilità di un marchio o di un prodotto. E’ un mezzo ancora molto diverso dai social network, risponde ad una logica pull (cerco  e trovo qualcosa) e i link sponsorizzati (cioè pagati da un inserzionista) sono evidenziati in cima al risultato della ricerca. L’elemento economico e chiaro e trasparente, la logica è quella della inserzione, ancorché potenziata nella capacità di diffusione. Il fatto singolare è un altro: siccome l’algoritmo di ricerca dei siti sviluppato da Google non è pubblico (è segreto e cambia in continuazione), nessuno – né gli inserzionisti né gli utilizzatori – sanno perché un sito si trova in che posizione e in base a quale criterio e cosa si debba fare per  promuoverne la visibilità e in quanto tempo. Si tratta di una sorta di partita a tennis che si svolge senza che le regole siano note ed esplicite (se mai ve ne siano) ed il cui esito i giocatori devono in qualche maniera intuire dal comportamento ondivago ed imprevedibile di un giudice inappellabile. Nella sostanza è un meccanismo non molto dissimile dal vecchio, criticato, dinosaurico Auditel di cui gli inserzionisti (e non solo) – pur sempre inutilmente – obiettavano la composizione, bontà e precisione del campione. Il metodo era questionabile ma del tutto esplicito ed esibibile … si sapeva com’era fatto …

(CONTINUA …)

immagine: una tavola che illustra – sezionandola – una Digitalis Purpurea, pianta bella, interessante e anche molto utile. Nell’osservazione della natura il punto di vista e lo scopo sono fondamentali: stai cercando un rimedio o esplorando il mondo intorno a te? stai osservando o sezionando? che aspettative hai e chi ti manda?

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Conversazione con Michele sulla comunicazione digitale

Michele BoroniQuesto post ospita una conversazione con Michele Boroni sull’evoluzione della comunicazione nell’era digitale. Michele si definisce un brand storyteller, con questo termine semplificando un mestiere che sta a metà fra il brand marketing, la strategia della comunicazione offline e soprattutto online e l’osservazione critica dell’evoluzione sociale e dei modelli d’impresa. Michele accompagna l’attività di consulenza ad una intensa attività editoriale che svolge in rete su Studio, Wired.it e Rockol, ma anche su canali editoriali più tradizionali come Il Foglio di Giuliano Ferrara, Style Magazine e La Lettura del Corriere Della Sera, Grazia, Rolling Stone, LINK. Io e Michele ci siamo conosciuti su un treno parlando di musica ininterrottamente per cinque ore. Da allora la conversazione continua senza interruzione.

A.B.: Non c’è dubbio che la modalità di comunicazione interpersonale e fra le aziende sia stata rivoluzionata negli ultimi trent’anni in maniera straordinaria: contenuti, modalità, tempi, tutto è cambiato. se tu dovessi riassumere le tappe di questa marcia forzata?  M.B.: Trent’anni?! Mi avevi detto che sarebbe stata una semplice intervista, non la scrittura di un tomo da 500 pagine! A parte gli scherzi, gli ultimi trent’anni del mondo della comunicazione corrispondono a circa un secolo degli altri contesti. I cambiamenti in questi sei lustri sono state continui e travolgenti; ma – nonostante tutto – in certi ambiti e settori le cose sono rimaste precisamente le stesse, più che altro per una generale preoccupazione di conservare lo status quo. Quindi da una parte c’è il crowdsourcing della comunicazione, dall’altra torna il Carosello e l’ALL21 (il superbreak in onda alle 21 sulle sette reti Mediaset per massimizzare i numeri di teste); da una parte c’è l’utilizzo intelligente dei big data e dall’altra c’è ancora l’auditel e i GRPs; da una parte ci sono i brand che diventano editori di contenuti adottando un approccio formativo ed educativo, dall’altra le aziende che utilizzano ancora il concetto di target e il centro media; da una parte il manager che usa i social network per comunicare (e relazionarsi) efficacemente con i media e gli stakeholders, dall’altra c’è l’amministratore delegato che si fa stampare le mail dalla segretaria. E’ un mondo a due facce, insomma.

AB: In questa evoluzione non si capisce se al centro vi sia un trasformazione sociale e l’evoluzione tecnologia ne sia un fattore abilitante o viceversa sia l’evoluzione della comunicazione a girare intorno all’accelerazione tecnologica. MB: La tecnologia, o forse è meglio parlare di digitale, è entrata a far parte delle nostre vite in maniera epidermica, e non si può neanche più parlare di rivoluzione. Parlare oggi di digitale è come parlare di elettricità o di acqua corrente. E’ un dato di fatto che oggi utilizziamo più gli smartphone del frigorifero o della lavatrice. Il digitale fa parte del panorama quotidiano e sia i dispositivi sia i servizi digitali, essendo per loro natura molto attrattivi, convogliano inevitabilmente gran parte della comunicazione. In molti casi hanno rappresentato un’evoluzione sociale, in altri hanno creato delle criticità. Ma è importante saper coglierne le opportunità, perché questo – comunque la si voglia pensare – è il futuro.

A.B.: La sovrapposizione dei media, il proliferare delle occasioni e dei contenuti: tutto sembra puntare verso una sorta di entropia, di caos di segnali; anche controproducente. Perché? M.B.: Questo accade perché nel corso di questa trasformazione epocale, che ancora stiamo vivendo (e che molti continuano a chiamare “crisi” quando è un complessivo cambio di paradigma) sono crollati i vecchi modi di distinguere e di classificare. Vedere il nuovo con gli occhi e gli schemi mentali del vecchio porta solo al caos e all’entropia. Per ricollegarmi alla domanda di prima sulla tecnologia, possiamo dire che negli ultimi vent’anni sono stati inventati e implementati una serie di device tecnologico digitali; oggi l’obiettivo delle aziende è quello di riempirli di contenuti. In fondo questa era l’intuizione finale di Steve Jobs: quella di collocare il futuro della sua azienda in un incrocio tra arti liberali e innovazione. Lui ha ideato gli strumenti e, nel suo schema, nei prossimi dieci anni non si dovranno creare altri device, bensì nuove forme di contenuto; forme di contenuto che, guarda caso, vanno sempre meno nella direzione della comunicazione pura e sempre più in quella dell’educazione. Credo che questo sia il ‘piano’ per il prossimo decennio.

AB: Anche in questo caos sia gli individui che le organizzazioni e imprese possono trarre un enorme vantaggio. ma come? quale è la cultura e competenza ‘giusta’ to ride the wave? quali i vantaggi?  MB: Questo caos paradossalmente facilita le innovazioni, sia nella comunicazione sia nei modelli di business. E a questo punto vorrei spostare lo rumore e nessun segnalesguardo verso l’Italia. Recentemente il sociologo Francesco Morace ha parlato, adottando un linguaggio pop, di Italian Factor, cioè quell’elemento che permette di moltiplicare il valore e le qualità che noi in Italia siamo in grado di produrre ma che spesso non riusciamo a raccontare nel mondo. Sia le persone (quelli-che-una-volta-si-chiamavano-consumatori) sia le aziende italiane hanno ancora difficoltà a capire la capacità attrattiva che l’Italia continua ad avere nel mondo. Ecco, il prossimo step è quello di superare questa difficoltà.  Alla base di tutto c’è sempre la piattaforma culturale del Rinascimento, che nel mondo è conosciuto come il Rinascimento Italiano. E quindi è necessario lavorare sulla tradizione, sulla storia e sulla memoria, dimensioni che  non solo non escludono la capacità innovativa ma, se ben integrate con i mezzi di comunicazione e i nuovi modelli di business digitale, diventano la piattaforma abilitante per valorizzare la qualità di cui siamo portatori.

A.B.: Come deve essere fatta l’agenda della comunicazione digitale di una azienda che sin qui non abbia posto grande attenzione ai cambiamenti in atto? ci sono degli elementi discriminanti in questo senso: dimensione, tipo di offerta, mercato, storia, anzianità …? M.B.: Ovviamente dipende, come sempre, dal settore e della modalità di business (b2b, b2c, servizi, industria manifatturiera, etc..). Io sono sempre un po’ a disagio quando si parla di agenda, perché la riconduco alla rigidità, agli appuntamenti fissi da rispettare anche se il contesto nel frattempo è cambiato … Preferisco invece invece parlare di planning dinamico. Ma, al di là dei termini, è necessaria una modernizzazione delle infrastrutture per la digitalizzazione (banda large, free wi-fi, etc…). In termini volutamente semplicistici, per l’Italia, credo che tutto dipenderà da un incontro: da una parte il mondo globale (che è alla ricerca di semplicità e di sostanza) e dall’altra le nostre classiche 3A (abbigliamento, alimentazione, arredamento) che possono nutrire questo bisogno di qualità nel quotidiano. Bisogna mettere in relazione queste due dimensioni …

A.B.: Si fa un gran parlare della narrativa, del racconto come la metafora centrale della comunicazione d’impresa. Perché? M.B.: In realtà è da trent’anni che il mondo della comunicazione si muove come una fabbrica di storie. In passato si pensava che una storia (anche se inventata) se ben comunicata fosse sufficiente a legittimare un business promettente. Questa idea tipicamente post-moderna ha prodotto risultati devastanti nei consumi (ad esempio, trasformare minus in plus, vedi il whisky dal colore chiaro e dal gusto pulito), nel marketing e, recentemente, nella finanza. Oggi, per fortuna, questo giocattolo si è rotto. Per comunicare in modo incisivo non basta ancorarsi alle categorie affettive, emozionali, funzionali e di rassicurazioni utilizzate fino a ieri. E’ necessario invece dotarsi di codici simbolici e di grande impatto per l’interlocutore di modo tale che diventi anch’egli un player, come in un videogame. Ecco quindi che lo storytelling legato al web e alla pervasività diffusa che solo i social network riescono a dare, permette di mettere insieme la rilevanza emotiva del contenuto e l’intensità relazionale.

A.B.: Ma cos’è lo story-telling? quali sono le tecniche dietro a questa modalità di comunicare?  M.B.: Tutto ormai è storytelling, dalla presentazione dello studente a quello dell’azienda. L’importante è che lo storytelling non sia un raccontare favole o bugie. Più contenuto c’è e meglio è. Meglio se il racconto dell’azienda sia un documentario. Per quanto riguarda la tecnica ci deve essere la massima libertà: non deve essere per forza neo-realista (sai che noia, ormai!), anzi, può essere usata l’animazione, i filtri Instagram, può essere sognante, misterioso; l’importante è che il contenuto veicolato dall’azienda sia di crescita e informazione profonda su quelle che sono le dinamiche, i processi produttivi, l’identità e la storia aziendale.

A.B.: Simboli, toni, contenuti, trasparenza, coerenza, verità, responsabilità, tempistica, ripetizione, quali sono gli elementi fondanti di una buona strategia di comunicazione? M.B.: In generale credo che non ci siano più delle formule che vadano bene per tutti. E questo avviene per un unico grande motivo:  oggi la comunicazione ha ripreso il suo significato iniziale, ovvero “mettere in comune”. Non più soltanto unidirezionale, verticistica e narcisistica, bensì – come ho detto prima –  relazionale. Quindi sicuramente l’ascolto diventa fondamentale tanto quanto il messaggio che si vuole lanciare. Se prima era fondamentale solo la presenza e la visibilità, oggi l’elemento fondamentale è la credibilità, trust, come dicono gli inglesi. Fiducia relazionale e non fidelizzazione imposta dall’azienda. Se viene cambiato questo punto di vista, è chiaro che anche i termini come coerenza, trasparenza e responsabilità assumono una veste nuova, meno di rappresentazione e più di identità.

A.B.: Puoi fare qualche esempio di aziende (italiane e non; grandi e non) che riescono a mantenere coesione fra tutti questi elementi in maniera davvero distintiva? M.B.: Un esempio italiano è evidentemente Eataly, che è riuscito in dieci anni a esportare la cultura del mangiar bene, con piacere e consapevolezza,  integrando alla vendita la ristorazione e la didattica. Ha saputo riunire le eccellenze di piccole aziende attive in vari comparti della enogastronomia, riducendo la catena distributiva dei prodotti e offrendo nel mondo il meglio delle produzioni artigianali a prezzi ragionevoli. Quindi innanzitutto un respiro progettuale, poi educazione alimentare, multidisciplinarietà, credibilità, qualità come principio strategico e sopratutto il PIACERE come consapevolezza da sviluppare e tutelare.

A.B.: … e fuori dell’Italia? M.B.: Beh, un esempio non italiano, ma molto interessante per come viene utilizzata la tecnologia, è quello offerto da Burberry’s che è riuscito a creare un rapporto molto stretto tra comunicazione, retail, nuove tecnologie, sito web generando un approccio  integrato di grande interesse e successo. 

A.B.: grazie Michele, la conversazione non finisce qui …

immagine: non sempre il messaggio di un media è così pertinente e chiaro come in questo caso (ma a che serve: l’oggetto ‘parla’ da sé …). Più comunemente il sovrapporsi di segnali che si riferiscono alla realtà crea una sorta di rumore di sottofondo che rende la comunicazione indistinta; per dirla col filosofo tedesco Hegel, una sorta di ‘notte oscura in cui tutte le vacche sono nere’. Fra questi due opposti resta difficile dire qualcosa che sia utile e dirlo bene.

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